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Coronavirus. Due anticorpi sembrano inibire il legame del virus con le nostre cellule

24 Giugno 2020 - 07:37 Juanne Pili
Sulle terapie basate sul plasma esiste un ampio dibattito, ma sono infinite le scoperte che possiamo trarne per lo sviluppo di un vaccino e terapie più efficaci

I risultati della ricerca condotta da Y. Wu et al., dal titolo «A noncompeting pair of human neutralizing antibodies block COVID-19 virus binding to its receptor ACE2», accendono nuovamente i riflettori sulle potenzialità delle terapie basate sul plasma, non tanto per la loro efficacia in sé, quanto per le scoperte importanti che ne derivano, sui meccanismi che permettono l’infezione.

Due anticorpi monoclonali umani neutralizzanti, B38 e H4, mostrano la capacità di bloccare il legame tra il SARS-CoV2 coi recettori ACE2, che il virus utilizza come porta di ingresso per infettare le cellule. Parliamo del receptor binding domain (RBD) nella glicoproteina Spike (S) del nuovo Coronavirus, ovvero il suo principale antigene, di cui si tiene conto anche nello studio di un vaccino efficace.

Una luce nella complessità dei meccanismi di infezione

Sebbene questi anticorpi derivino dal plasma di un paziente convalescente, i risultati dello studio si basano su dei test condotti sui topi, mostrando la loro potenziale capacità di ridurre la titolazione virale nei polmoni infetti, vale a dire, la capacità del virus di proliferare nei nostri tessuti.

«I nostri risultati evidenziano la promessa di terapie a base di anticorpi e forniscono una base strutturale per la progettazione razionale del vaccino – continuano gli autori, e aggiungono nell’abstract che – gli anticorpi neutralizzanti potrebbero essere potenzialmente utilizzati come antivirali contro la pandemia di Covid-19».

Ma notiamo che il passaggio da un modello murino (sui topi) a uno umano si complicherebbe ulteriormente. Sono diversi i fattori che si aggiungono al gioco del virus. Avevamo recentemente analizzato per esempio, gli studi preprint condotti dai team di Balistreri, Simons et al., e Yamauchi, Clullen et al., dove si individuano le potenziali capacità della proteina NRP1 di incrementare la capacità del virus di infettare le cellule, la cui presenza è stata riscontrata anche in alcuni esami autoptici. 

Altre incognite riguardano i meccanismi che portano alle forme più gravi di Covid-19, mediante la tempesta di citochine. Recentemente al San Raffaele è stato studiato un altro anticorpo monoclonale, il macrofago mavrilimumab, che potrebbe aiutarci a prevenirla o ridurne gli effetti;  mentre l’OMS ha recentemente riconosciuto le capacità del corticosteroide desametasone – in studio nell’ambito del progetto RECOVERY trial di Oxford – nel ridurre l’infiammazione dovuta alle citochine. 

Come è stato svolto lo studio sui linfociti B38 e H4

Compresa la complessità del contesto, in cui si studiano vari singoli aspetti delle dinamiche in gioco, nel potenziare o ridurre il legame tra Spike (S) e ACE2, con tutte le conseguenze dirette o indirette di cui dobbiamo tener conto, e che possono spiegare i risultati contrastanti che abbiamo ottenuto dalla sperimentazione delle terapie al plasma, proseguiamo analizzando come è stato svolto lo studio.

Utilizzando il meccanismo del RBD che permette il legame con gli ACE2 come bersaglio, i ricercatori sono riusciti a isolare dei linfociti B, delle cellule immunitarie che producono gli anticorpi specifici contro i virus. Ne esistono diversi tipi, a noi interessano le immunoglobuline M e G (IgM e IgG). Le seconde sono quelle che una volta individuato l’antigene (in questo caso la proteina Spike), permangono nel tempo, determinando l’immunità al virus.

Per la produzione di IgG dai linfociti è stato utilizzato un vettore pCAGGS. Parliamo di un tipo di plasmide, ovvero un piccolo filamento circolare di codice genetico, che può essere utilizzato per trasferire “informazioni”; in questo caso è stato impiegato per clonare i linfociti B, selezionandone diversi tipi, mediante una linea di cellule renali umane coltivate. I ricercatori sono così arrivati a individuare quattro anticorpi capaci di creare un legame col RBD, tra questi i già citati B38 e H4. 

«B38 e H4 hanno mostrato di concorrere totalmente con gli ACE2 per il legame RBD – continuano gli autori – Sebbene RBD fosse saturo del primo anticorpo, il secondo potrebbe ancora legarsi a RBD, ma con una certa inibizione. Ciò suggerisce che B38 e H4 riconoscono epitopi diversi su RBD con parziale sovrapposizione».

Rispetto al gruppo di topi in cui sono stati sperimentati gli effetti, in quello di controllo si osservano broncopolomoniti gravi, edema e desquamizzazione delle cellule epiteliali bronchiali.

I ricercatori hanno quindi mostrato che questo genere di linfociti hanno una potenziale capacità neutralizzante, fondamentale da studiare nella ricerca di vaccini, e terapie più mirate rispetto al mero utilizzo del plasma.

Immagine di copertina: NIAID | Colorized scanning electron micrograph of a B cell from a human donor.

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