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Coronavirus, i numeri in chiaro. La fisica Paolotti: «Sì a nuove chiusure per Natale. Un errore aprire Lombardia e Piemonte»

14 Dicembre 2020 - 20:23 Cristin Cappelletti
Per la ricercatrice della Fondazione Isi di Torino la decrescita dei casi è ancora troppo lenta, serve una comunicazione chiara o «vedremo gli assembramenti dello scorso weekend»

Con quasi 50 mila tamponi, i nuovi casi da Coronavirus registrati oggi in Italia sono stati 12.030. L’ultimo bollettino diffuso dalla Protezione civile e dal ministero della Salute ha fatto registrare anche un alto numero di vittime legate al Coronavirus. Un dato che non accenna a diminuire, così come quello dei contagi in Veneto: «È l’unica Regione che ha una tendenza negativa», spiega a Open Daniela Paolotti, ricercatrice alla Fondazione Isi di Torino.

Quasi 3 mila casi su circa 9 mila tamponi effettuati. In Veneto il tasso di positività continua a essere molto alto. Sono necessarie nuove misure?

«La fotografia della situazione epidemiologica mostra sicuramente come, davanti a un miglioramento in quasi tutte le regioni italiane, il Veneto continui a raccogliere numeri negativi. Nel resto d’Italia, a una diminuzione dei tamponi ha fatto comunque seguito una veloce discesa dei nuovi casi, e il tasso di positività è sceso rispetto alle scorse settimane. Il Veneto sarebbe dovuto diventare arancio già da molto tempo e qualcosa va fatto. Resta da capire se le decisioni verranno prese già adesso, o si aspetterà dopo il periodo natalizio».

La Lombardia sembra invece essere riuscita a far scendere il numero dei nuovi casi.

«Il risultato che stiamo vedendo in Lombardia è sicuramente la conseguenza del mese e mezzo di zona rossa. Tuttavia, è un risultato che arriva a fronte di una grande fatica visto che questa discesa è lentissima. C’è voluto appunto più di un mese e mezzo per cominciare a vedere qualche spiraglio, ma il rischio è vanificare tutto con le riaperture di questo periodo. Da una parte dobbiamo essere soddisfatti che le restrizioni abbiano avuto effetto, dall’altra rimane l’alto bilancio dei morti. E non si può gettare al vento la fatica fatta fino ad ora. È normale che le persone abbiano voglia di uscire, ma il virus continua a circolare, non si può abbassare l’attenzione».

Fino a una settimana fa si parlava di aperture tra comuni. Oggi, invece, c’è la prospettiva di un lockdown nazionale nel periodo natalizio. Cosa è cambiato?

«Il governo si aspettava probabilmente una decrescita più rapida e il numero di morti, che comunque è rimasto alto, fa pensare che si debba continuare a implementare le restrizioni. Se si va verso troppe aperture si avranno i decessi ancora più elevati di quelli che abbiamo avuto qualche settimana fa. Nel periodo natalizio le famiglie si mescolano molto. Per fortuna, però, questa tendenza è compensata dalla chiusura delle scuole. Il governo fa molto bene a pensare a un Natale con più limitazioni soprattutto in vista di una ritorno in classe a gennaio. Quella di questi ultimi giorni è sicuramente una valutazione assennata».

In Germania il lockdown comincerà già dal 16 dicembre. Esempio da seguire?

«Diciamo che la Germania è stata un esempio in primavera grazia a grandi capacità nel contact tracing e nel testing. Il governo ha potenziato le terapie intensive a fronte di un numero di posti letto già molto alto. Tuttavia, anche lì, durante l’autunno le misure sono state allentate eccessivamente e le restrizioni sono state “all’acqua di rose”. Dopo qualche settimana si sono resi conto che dovevano implementare una strategia più aggressiva. Il lockdown che vediamo ora è un tentativo di tamponare la situazione».

Nelle grandi città, come Milano, abbiamo visto immagini di grandi file davanti ai negozi e assembramenti. Che cosa manca nella comunicazione politica?

«La percezione tra le persone è che il rischio sia passato e che i casi stiano scendendo. Quando si passa in una fase con meno misure è inevitabile che le persone cerchino di buttarsi alle spalle il lockdown e si preparino al Natale come hanno fatto in passato. Il messaggio che deve passare è quello di non abbassare la guardia. E il governo doveva pensarci un attimo prima di rendere Piemonte e Lombardia zona gialla. Soprattutto in un periodo prefestivo diventa un po’ un gioco al massacro dare la responsabilità da una parte alle persone che vogliono tornare alla normalità, e dall’altra ai negozianti che vogliono compensare le perdite dei mesi passati. Ci sono messaggi discordanti che creano confusione e il risultato è quello che abbiamo visto nello scorso weekend».

Che cosa potremmo quindi aspettarci nei prossimi mesi. La divisione in zone ha funzionato?

«Questa strategia in realtà ha frammentato ancora di più la gestione dell’epidemia. Diventa complicato stendere un recinto tra una regione e l’altra pensando si tratti di compartimenti stagni senza movimenti di persone. Dal punto di vista dei dati è un’organizzazione che ha creato tantissimi problemi. Gestire la sanità a livello nazionale diventa un incubo».

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