Coronavirus, il medico rianimatore passato dall’inferno del Covid-19: «Ho temuto di non rivedere più la mia famiglia: ora voglio tornare a lavoro»

Confessa il rianimatore: «Ho temuto di non rivedere mia moglie e i nostri quattro figli. Fino a quell’istante avevo curato gli altri attaccati dal coronavirus. Ho visto pazienti morire, conosco la sua aggressività. Così ho pensato che magari il momento del congedo era venuto anche per me».

Drammatica, ma anche piena di speranza, la storia del 53enne Angelo Vavassori di Treviolo che in poche ore è passato da essere un medico rianimatore dell’ospedale di Bergamo a un paziente affetto da Covid-19. Il dottore racconta la esperienza con la malattia in un’intervista a Repubblica, dai primi sintomi del Coronavirus, fino alle ore più difficile e alla strada verso la guarigione.


I primi sintomi

Vavassori confessa di aver tenuto di non farcela. «Quando non sono più riuscito a respirare, ho temuto di non rivedere mia moglie e i nostri quattro figli. Fino a quell’istante avevo curato gli altri attaccati dal coronavirus. Ho visto pazienti morire, conosco la sua aggressività. Così ho pensato che magari il momento del congedo era venuto anche per me».


Ricostruisce poi i momenti più difficili: «In poche ore sono passato da 15 a 40 respiri al minuto. Non mi entrava più aria nei polmoni e ho quasi perso la vista. Se sono qui lo devo ai miei colleghi medici, eroi non retorici. Nei momenti più duri mi hanno fatto sentire tranquillo. La mia storia, in ore nere, può aiutare molti a non lasciarsi andare».

L’isolamento

Racconta di aver avuto la febbre già sabato 29 febbraio, ma di aver terminato il suo turno in ospedale, così come il giorno successivo. Lunedì, però, verso sera, aveva già la temperatura a 38,9. Quindi la decisione di chiudersi una stanza di casa, visto che era consapevole del fatto che la terapia intensiva era già strapiena.

I familiari che «per due giorni mi hanno lasciato il cibo davanti alla porta chiusa. Lo ritiravo con guanti e mascherina, poi disinfettavo tutto. Comunicavamo al telefono. Non è bastato: mia moglie e il figlio più grande di 18 anni sono rimasti contagiati. I gemelli di 14 anni e la bambina di 11, per ora no».

La battaglia

Poi il tampone il 4 marzo e giovedì la conferma della positività, con la febbre ormai a 39. «La sera ho cominciato a respirare a fatica. In pochi minuti ho perso olfatto e gusto, ci vedevo sempre meno. Per la carenza di ossigeno sono saliti anche mal di testa e dissenteria», spiega ancora il medico.

La consapevolezza, da rianimatore, di non poter ancora respirare a lungo e la telefonata in ospedale, ma il posto che non c’era. Poi alle 23 la chiamata: si era liberato un letto. E poi il momento più difficile: «La dispnea toglie totalmente il fiato. Mi hanno infilato subito nel casco Peep a pressione di fine respirazione positiva. Ho provato a farcela senza essere sedato e intubato. Si perde comunque conoscenza, non è stato facile. Nel casco della ventilazione il rumore è assordante, il flusso dell’ossigeno è caldo. Si suda e sembra di soffocare ancora più di prima. Invece un po’ alla volta senti che se tiri, entra aria. Sono un rianimatore, per giorni ho curato i contagiati: conoscere le loro reazioni mi ha aiutato a resistere».

Vavassori spiega che gli è stato somministrato un «cocktail di antiretrovirali previsto dal protocollo» che «serve a concedere tempo agli anticorpi”. Per qualche giorno si è sentito assente: «Avverti nel sonno che medici e macchine ti infondono ossigeno e ti idratano. Il tempo si concentra in un istante: ora so che è questa accelerazione che cancella passato e presente, il confine tra la vita e la morte».

Il risveglio

Poi il risveglio. «Pensavo di essere a casa, appena assopito. Invece nel letto accanto al mio c’era un paziente che avevo curato io per il Covid-19. Come ai bambini, ogni cosa appare nuova e straordinaria. Questo dramma ci insegna il valore di ogni piccola cosa».

Adesso si trova nel reparto di «in gastroenterologia, riconvertita al Covid-19. Respiro con una mascherina che rilascia ossigeno al 70%, circa 12 litri al minuto. Accanto a me ci sono i miei malati: sono sorpresi quando capiscono che mi sono trasformato in uno di loro».

Infine il medico lancia un appello a chi ha controttao il Covid-19: non farsi prendere dalla paura. «Bisogna restare tranquilli e affidarsi ai medici. Ti tirano fuori, ogni polmonite regredisce». Poi la preoccupazione più grande: «Se penso ai medici e agli infermieri del nostro Paese mi commuovo. Siamo allo stremo e sappiamo che la battaglia resta lunga. Chiedo a tutti di aiutarci restando in casa. È così che ci si sta vicino. Io poi da lunedì spero di ritornare al lavoro».

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