Coronavirus, come mai al Sud non è esplosa l’emergenza? Rezza: «Il fattore temporale ha salvato il Meridione» – L’intervista

«Non si può abbassare la guardia», afferma il capo del dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità. «Ci vuole poco per trasformare Bari in una grande Codogno»

Quando è stato annunciato l’isolamento delle regioni del Nord Italia ed è scattato l’esodo verso Sud, lo scorso 7 marzo, si temeva che anche nei territori meno colpiti dal Coronavirus potessero nascere dei focolai capaci di far collassare le varie sanità regionali. Fortunatamente, non è accaduto. Le evidenze numeriche si leggono nei dati del 9, 10 e 11 aprile comunicati dalla Protezione civile.


La somma totale dei casi positivi presenti al Sud e nelle Isole, il 9 aprile, era di 10.002. Nella sola Lombardia c’erano il triplo degli infetti: 29.530. Estendendo il confronto tra l’intero Nord e il Sud, il rapporto tra le persone positive al Sars-CoV2-19 nelle differenti aree è di 8 a 1. Il virus non ha sfondato la linea gotica. Un divario che si fa ancora più ampio considerando il numero dei decessi: il rapporto tra Meridione e Settentrione è di circa uno a 18.


Il 10 aprile è arrivata la conferma di quei dati: in Lombardia c’è stato un incremento di casi totali di +1.246 rispetto al giorno precedente, un terzo del totale nazionale, di +3.951. Nessuna regione del Sud ha avuto un incremento superiore alle 100 unità: i territori meridionali più colpiti, ovvero Campania e Puglia, hanno avuto un aumento dei casi nelle 24 ore rispettivamente di +98 e +93. Idem ieri, 11 aprile: Campania +75, Puglia +95 e Lombardia +1.544.

Per Giovanni Rezza, capo del dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di Sanità, è stato il «fattore temporale a salvare il Sud Italia».

Professore, perché il Sud ha retto?

«Il virus è entrato in Lombardia, probabilmente già prima del blocco dei voli da Wuhan. E lì si è diffuso in un periodo di picco influenzale: almeno inizialmente è stato molto difficile da diagnosticare. Poi si è trasmesso principalmente per contiguità, senza compiere salti a distanza, se non per qualche cluster ben circoscritto in Veneto, a Rimini e verso le Marche. Quando l’epidemia si è diffusa in tutta Italia e sono nati dei focolai al Sud, le autorità erano già preparate».

E cosa ha impedito che si arrivasse ai numeri di Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto?

«Il provvedimento di distanziamento sociale ha ostacolato il virus al Meridione prima che potesse diffondersi nelle stesse misure del Nord, dove circolava da parecchio tempo. Sì, c’è stata qualche catena di trasmissione a Roma, una città molto popolosa. Alcune catene si sono viste nelle Rsa, le residenze per anziani: ma quando il virus è arrivato davvero, i provvedimenti di distanziamento sociale erano stati già presi. Il fattore temporale ha salvato il Meridione».

Solo questione di tempo?

«No, assolutamente. Il virus ha dimostrato di colpire principalmente le aree più produttive, come il Nord Italia: semplicemente perché ci sono più contatti tra le persone e più spostamenti quotidiani legati a un mondo del lavoro frenetico. Anche l’aspetto della densità abitativa ha inciso. Ma le variabili sono tante, senza dimenticare il fattore della casualità, sempre presente nelle epidemie».

Lei stesso diceva che ci sono state trasmissioni incontrollate nelle Rsa, anche al Sud. Come se le spiega?

«Quando il virus circola, anche se circola poco, va a creare focolai di un certo rilievo nei luoghi chiusi: le principali catene di trasmissione si sono verificate nelle famiglie e negli ospedali. Le Rsa hanno personale che spesso si muove da una struttura all’altra e ospiti che spesso vengono mandati in ospedale per determinate cure: questi sono stati gli elementi che hanno facilitato la creazione dei focolai in determinati luoghi sensibili».

Si aspettava una maggiore incidenza del contagio dopo l’esodo di persone dal Nord al Sud avvenuto le prime domeniche di marzo?

«Abbiamo notato, nel periodo successivo all’esodo, catene di trasmissione intrafamiliare al Sud avvenute in seguito all’arrivo di un elemento del nucleo dal Nord. Al di là di qualche focolaio di questo tipo, fortunatamente la situazione non è degenerata. E parte del merito va anche ai governatori regionali che hanno istituito delle zone rosse laddove ce n’era bisogno: a memoria ne ricordo quattro nel Lazio, cinque in Campania, e anche in Calabria e Sicilia. Isolare i piccoli territori più colpiti ha funzionato».

Perché la Campania è la regione meridionale più colpita?

«La Campania preoccupa più delle altre semplicemente perché è tra le più popolose, con un’alta densità abitativa e dove ci sono più contatti tra le persone».

Cosa succederà nelle prossime settimane al Sud?

«Molto dipenderà dalle misure che si prenderanno e da quanto la popolazione le rispetterà. È difficile fare scenari perché, fin quando non ci sarà un vaccino, il virus circolerà. Non ce ne libereremo. Se si mollasse con le precauzioni, basterebbe poco tempo a trasformare Bari in una grande Codogno. Bisogna tenere molto alta la guardia, il distanziamento sociale ha dimostrato di riuscire a contenere il contagio e bisogna continuare su questa strada. Anche quando ci sarà la cosiddetta fase 2, occorrerà muoversi con cautela: la politica dovrà trovare un equilibrio tra la necessità della ripresa economica e la salvaguardia della salute pubblica. Il distanziamento sociale dovrà continuare».

In copertina: foto Ansa l’omaggio delle ambulanze in piazza Plebiscito, Napoli

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