Coronavirus, dai trasporti pubblici ai controlli nelle aziende: ecco perché la Fase 2 rischia di trasformarsi in un drammatico luna park

Già da domani, 27 aprile, riapriranno alcune imprese. Ma le questioni da chiarire prima del 4 maggio, la fine del lockdown, sono molte. A cominciare dalla reperibilità delle mascherine

Il fine settimana è quasi trascorso ma, a differenza di quanto annunciato da Giuseppe Conte, il decreto che detterà le linee guida per il 4 maggio non è ancora arrivato. Un decreto che dovrebbe servire a fare chiarezza sulle modalità di riapertura di alcune attività, sulla mobilità delle persone e sugli obblighi che dovranno osservare i cittadini una volta che il lockdown sarà cancellato. La sensazione è che però questa chiarezza non ci sia nemmeno in seno al governo e che il ritardo nella stesura del testo derivi da vari attriti irrisolti.


Il presidente del Consiglio ha rimandato al pomeriggio di oggi, 26 aprile, il vertice con governatori e sindaci previsto ieri. Il clima, soprattutto nelle regioni del Sud, non è disteso: le autorità locali temono una nuova ondata di fuori sede che potrebbero arrivare dal Nord, come successe le prime domeniche di marzo. Poi ci sono i malumori interni allo stesso esecutivo. Le indiscrezioni raccontano dell’irritazione di alcuni esponenti del Partito democratico: c’è nervosismo per i ritardi di Conte e sul suo modo di annunciare i decreti.


Per ora quindi le caratteristiche della cosiddetta Fase 2 sono aggrovigliate in un bailamme di smentite e rivelazioni. Al tipico gioco politico, si sono aggiunte le voci di commissari, medici e membri delle almeno due task force istituite per il Coronavirus. Senza contare le Regioni che, nelle materie di loro competenza procedono in ordine sparso. Tuttavia un quadro delle regole e delle indicazioni da seguire per il post 4 maggio è ipotizzabile: è un quadro, però, che lascia delle perplessità e che fa temere che la ripartenza si trasformi in un liberi tutti. In un lunapark.

Il falso mito della patente d’immunità

Va chiarito subito: non esiste conferma scientifica che chi abbia contratto il virus sviluppi un’immunità in grado di proteggerlo da una seconda infezione o che la presenza di anticorpi determini una non contagiosità. Anzi, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha specificato in una nota che l’utilizzo da parte dei governi di diciture come “certificato di rischio zero”, “patente” o “passaporto d’immunità” possano dare false illusioni e facilitare la diffusione del contagio.

«A questo punto della pandemia – scrive l’Oms – non ci sono abbastanza evidenze circa l’immunità garantita dalla presenza di anticorpi». I passaporti sanitari ai quali sta pensando di ricorrere il Cile per permettere ai lavoratori di riprendere la propria mansione o la strategia svedese di mantenere aperte molte attività per far sviluppare – come dicono gli epidemiologi del Paese scandinavo – un’immunità di gregge, sono misure rischiose.

Test sierologici in Italia

Allora perché anche in Italia si parla tanto dei test sierologici? Il commissario per l’emergenza Domenico Arcuri ha indetto una gara, vinta dall’azienda farmaceutica americana Abbott, per «l’acquisizione di kit per l’effettuazione di 150.000 test sierologici finalizzati ad un’indagine campione sulla diffusione dell’infezione da Sars-Cov-2». L’indagine – ha confermato lo stesso Arcuri – partirà dal 4 maggio.

«Assieme a Inail e Istat – ha detto il commissario -, in base all’anagrafe, alla zona, al censo e alla classe, avremo una massiccia messa in campo di questi test che ci permetteranno di raggiungere primi risultati». Per il ministro della Salute Roberto Speranza, «l’indagine a campione sulla sieroprevalenza ci permetterà di capire il livello di diffusione del virus nel Paese e di pianificare le prossime fasi e il ritorno all’attività». Una dichiarazione che potrebbe essere fraintesa: la presenza di persone che hanno contratto il virus non garantisce la loro immunità.

A cosa serve il test sierologico

Anzi, una concentrazione di persone che hanno sviluppato gli anticorpi potrebbe addirittura dissuadere dalle riaperture: potrebbe indicare che il virus sia circolato parecchio e, per questo, essere ancora presente in casi asintomatici. Fermo restando che non è detto che gli anticorpi impediscano di riammalarsi. I test seriologici in questione sono esami del sangue che permettono di individuare le immunoglobuline che hanno reagito al Sars-Cov-2.

Sono due i tipi di immunoglobuline particolarmente indicative. Le IgM, anticorpi che compaiono nelle prime fasi dell’infezione e scompaiono abbastanza velocemente, e le IgG, anticorpi più tardivi e più persistenti. Nessuna delle due immunoglobuline garantisce, allo stato attuale degli studi scientifici, l’immunità certa. Inoltre l’affidabilità dei test acquistati dall’Italia viaggia intorno alla percentuale del 95%.

La necessità dei tamponi

Per la Fase 2 dell’Italia, quindi, bisognerà fare ancora affidamento sulla potenza di fuoco dei tamponi. Restano l’unico metodo in grado di confermare con esattezza se l’individuo è positivo o meno al Covid-19. È incauto immaginare di far ripartire il Paese senza una scorta di tamponi e reagenti e senza laboratori e personale che possano effettuare il test diagnostico su un gran numero di persone.

In Piemonte, regione in cui il ritardo nell’individuazione dei casi positivi ha aggravato il tasso di contagio, ci sono voluti due mesi per arrivare alla capacità giornaliera di 7.000 tamponi. Pochissimi rispetto alla popolazione della regione pari a 4,356 milioni di persone. A livello nazionale, nelle giornate più proficue si è superata di poco la quota di 60.000 tamponi. Stiamo parlando dello 0,1% dei cittadini: tutte le valutazioni sulla ripartenza non possono prescindere dal fatto che l’Italia non è in grado di effettuare test diagnostici a tappeto.

Questione mascherine

Non è ancora chiaro se ci sarà o meno l’obbligo di utilizzare le mascherine per chiunque esca di casa. Certo è che in alcune regioni l’obbligo c’è già. I tentativi di fornirle gratuitamente alle fasce più deboli della popolazione non sono riusciti a raggiungere una diffusione capillare. E se si considera, ad esempio, che una farmacia di piazza della Repubblica, a Milano, vende le mascherine chirurgiche a 2,50 euro, è chiaro che esistono persone che non potranno permettersi di acquistarle. Il commissario Arcuri ha assicurato: «Siamo pronti a distribuire tutte le mascherine che serviranno per gestire la Fase 2».

E ha aggiunto: «Arriveremo presto a produrre almeno 25 milioni di mascherine al giorno». Un cambio di passo importante se si considera che, fino al 25 aprile sono state distribuite dal pubblico 138 milioni di mascherine e che le regioni sono riuscite ad accumulare una scorta di sole 47 milioni di mascherine nei magazzini. Ma i numeri di Arcuri restano lontani dall’indicazione di Francesco Saverio Violante, direttore di Medicina del lavoro al Policlinico Sant’Orsola di Bologna: «L’Italia, per la Fase 2, avrà un fabbisogno giornaliero di 40 milioni di mascherine chirurgiche». Inoltre il commissario non ha spiegato chi e come produrrà gli annunciati 25 milioni di masherine, né di che qualità saranno.

I problemi della mobilità

I governatori di molte regioni chiedono che resti ancora interdetta la mobilità interregionale, salvo per le comprovate esigenze previste dall’autocertificazione che potrebbe cambiare o addirittura essere eliminata. A una settimana esatta dalla riapertura, uno degli scogli più duri da superare è quello relativo agli spostamenti delle persone. Soprattutto nelle città, ma la questione riguarda anche i comuni più piccoli, non si può immaginare di far ripartire le attività senza offrire ai cittadini la possibilità di raggiungerle con i mezzi pubblici.

Un problema che si è posto da subito Beppe Sala, sindaco di Milano, che ha dato mandato all’Atm di studiare un meccanismo per ingressi scaglionati nella metropolitana e a ha fatto tappezzare il pavimento con una segnaletica per il distanziamento. Ma la situazione, nelle ore di punta, appare già insostenibile. L’Atac, a Roma, ha effettuato una simulazione sul metrò della capitale: per tenere sotto controllo il flusso, è stato consentito l’ingresso a 30 passeggeri ogni tre minuti e i convogli dovevano avere un massimo di 150 passeggeri.

In un mondo idilliaco sembrerebbe funzionare, ma ecco cosa è accaduto a Roma lo stesso giorno dell’esperimento. Sulla linea dell’autobus 106, all’altezza di Torre Spaccata, l’autista ha dovuto bloccare il mezzo e chiedere alle persone di scendere. «Tutti i posti a sedere erano occupati, più altre 10 persone in piedi», ha dichiarato un passeggero a Roma Today. È successo il 24 aprile alle 12.30, in pieno lockdown. Certo non è un problema solo italiano: hanno fatto il giro del mondo le immagini della metropolitana di Parigi, piena di gente nonostante le misure di distanziamento imposte dal governo francese.

Il mondo del lavoro

Con tutte le precedenti questioni ancora in sospeso, resta difficile immaginare come potranno adeguarsi le imprese che tra il 27 aprile e il 4 maggio o in seguito dovranno riaprire i battenti. Saranno in grado di fornire i dispositivi di protezione individuale ai dipendenti? Misureranno loro la temperatura? Chi controllerà sul distanziamento sociale in azienda? Sembra che alle imprese si sia lasciata troppa discrezionalità sulla gestione del lavoro nella fase 2.

Per Vittorio Demicheli, direttore sanitario dell’Ats della Regione Lombardia, «ci vorrebbe un esercito di controllori». Certo sarà disponibile più personale rispetto alla prima fase dell’epidemia, in cui tutti gli attori si sono trovati a rispondere a una situazione fuori controllo. Ma non rassicurano i numeri dei controlli svolti nelle aziende durante la fase 1. La prefettura di Milano, ad esempio, ha fatto sapere che nella provincia sarebbero stati fatti in totale 228 controlli da Ats, Nas e Carabinieri addetti alla tutela del lavoro.

«Decisamente pochi», per la Segretaria generale Fiom Milano Roberta Turi, secondo la quale sono almeno 4mila le aziende in provincia che hanno mandato una richiesta di deroga alla Prefettura per restare aperte durante l’emergenza sanitaria. Oltre alle Rsa e ai contagi intrafamiliari, durante il lockdown si sono riscontrate alcune catene di trasmissione all’interno delle aziende. È il caso dell’industria di lavorazione carni Siciliani di Palo del Colle, in provincia di Bari. Sono 60 i dipendenti dell’azienda che, nell’ultima settimana, hanno riscontrato la positività al coronavirus.

Le richieste dei sindaci

«Noi Sindaci, fin dall’inizio di questa emergenza, abbiamo garantito collaborazione al Governo con senso di responsabilità e in un sincero spirito di solidarietà tra istituzioni, che riteniamo doveroso. Oggi – 26 aprile -, confermando la nostra leale collaborazione, rivendichiamo alcune misure che riteniamo indispensabili per avviare la fase due, per una ripartenza vera, che non lasci indietro nessuno. E lo facciamo con la nostra abituale concretezza».

È il contenuto della lettera firmata a nome di tutti i primi cittadini di italia. I sindaci chiedono di conoscere, prima del 4 maggio, l’elenco delle attività che riaprono per adottare le misure necessarie in materia di mobilità e trasporto, per regolare gli orari di uffici ed esercizi e per il corretto utilizzo da parte dei cittadini degli spazi pubblici. Attraverso l’Anci, i primi cittadini chiedono anche «indicazioni chiare e inequivoche sul corretto utilizzo delle mascherine alla popolazione e ai lavoratori, assicurando disponibilità nelle farmacie ad un prezzo fisso calmierato».

Mentre restano molti i dubbi relativi alle riaperture, il governo, attraverso il proprio sito, ha voluto chiarire un aspetto relativo alle misure adottate: «Chi abita vicino al mare, al lago o a al fiume può fare il bagno». Ai lettori la valutazione sull’indispensabilità di questa spiegazione.

Il parere degli esperti:

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