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Il Coronavirus esisteva già dormiente in tutto il Mondo? Le ipotesi poco scientifiche di Tom Jefferson

15 Luglio 2020 - 12:34 Juanne Pili
Le idee dell'epidemiologo inglese non hanno fondamento. Perché nessuno le ha verificate?

Tom Jefferson è un epidemiologo del Center for Evidence-Based Medicine (Cebm), presso l’Università di Oxford, che starebbe facendo tremare le nostre presunte certezze sull’origine del nuovo Coronavirus. Ci riferiamo a una intervista concessa dal medico al Telegraph il 5 luglio scorso.

Secondo Jefferson vi sarebbero evidenze che suggeriscono la presenza del virus nel mondo molto prima che si manifestasse nel mercato di Wuhan nel dicembre 2019. SARS-CoV2 sarebbe stato quindi dormiente ovunque, per poi venire attivato a un certo punto dall’ambiente.

Altre testate, come Il Sole 24Ore, riportano le sue argomentazioni in maniera acritica. Parliamo di un esperto che ha collaborato presso la Cochrane Collaboration, nella stesura di diverse analisi sistematiche. Tuttavia chi ha diffuso le sue tesi avrebbe dovuto comunque verificarle, scoprendo che molte delle sue domande hanno già una risposta.

Al solito il principio di autorità ha avuto la meglio. Jefferson è anche uno dei tanti esperti presi in considerazione negli ambienti «free vax», per i suoi preconcetti riguardo alle case farmaceutiche (questo non fa di lui un anti-vax), lo abbiamo scoperto facendo quel che si dovrebbe sempre fare leggendo affermazioni straordinarie: chiedersi chi ne è l’autore, verificare se le sue tesi partono da basi credibili e consultare altri esperti. Per puro caso lo citavamo già in un precedente articolo, dove analizzavamo gli studi usati dai NoVax.

Così succede che un personaggio, che aveva già dimostrato dei forti bias, può diffondere le sue «ipotesi», trovando un megafono nei media più autorevoli. Elenchiamo di seguito le sue affermazioni principali.

Le principali «ipotesi» di Jefferson sul «virus dormiente»

Le analisi delle acque reflue in Spagna avrebbero trovato tracce del SARS-CoV2 nel marzo 2019, mentre in quelle italiane risulterebbero da metà dicembre, come avevamo riportato in un precedente articolo. Secondo l’Epidemiologo, analisi analoghe daterebbero la prima evidenza del virus in Brasile a novembre. 

Ma il dato più interessante arriverebbe, secondo Jefferson, dalle Isole Falkland, dove vi sarebbe stato un caso già a febbraio. La fonte non lo specifica, ma si intende sempre l’anno corrente, non certo il 2019. «Com’è arrivato laggiù? Chi lo ha portato?», si chiede Jefferson. 

Infine, il medico ricorda il caso di una nave da crociera in viaggio dalla Georgia del Sud a Buenos Aires, dove a bordo sarebbe stato accertato il «primo caso di infezione». L’Epidemiologo non fornisce maggiori dettagli, in merito alla nave e alla data in cui l’episodio sarebbe avvenuto.

Secondo Jefferson tutto questo si spiegherebbe col fatto che molti virus resterebbero semplicemente inattivi, fino a quando non si presentano «condizioni ambientali favorevoli». Ipotizza quindi che lo stesso potrebbe essere successo per i virus dell’influenza Spagnola e della Sars. 

«Nel 1918 circa il 30% della popolazione delle Samoa occidentali morì di influenza spagnola e non avevano avuto alcuna comunicazione con il mondo esterno», continua Jefferson, invitandoci a porre nuove domande riguardo alla «ecologia del virus».

In questo articolo analizziamo ognuna delle sue affermazioni, per capire meglio fino a che punto possiamo ritenerle plausibili, e se per caso le domande poste dall’Epidemiologo hanno già delle risposte, spiegando meglio della sua ipotesi l’evoluzione della pandemia di Covid-19.

I limiti delle analisi sulle acque reflue

Lo studio delle acque reflue si è rivelato molto utile per stimare le dimensioni di una pandemia e quando potrebbe essere cominciata in un determinato territorio, partendo dal fatto che tracce del genoma virale potrebbero conservarsi nelle urine e nelle feci.

I risultati dell’analisi spagnola sono disponibili al momento in un preprint nel database online medRxiv, per tanto non sono stati ancora sottoposti a peer review, vanno quindi presi con le dovute precauzioni. Anche il comunicato diramato dall’Istituto superiore di sanità il 18 giugno 2020, riguarda uno studio ancora «in via di pubblicazione». Stando ad altri riscontri, sembrerebbe comunque, che vi siano indizi della presenza del SARS-CoV2 almeno dai primi di gennaio.

Abbiamo visto che il passaggio del SARS-CoV2 e l’effettivo accertamento di focolai di contagio, possono certo spiegarsi col suo arrivo ben prima di quando pensavamo, in ragione del ruolo che presintomatici e asintomatici sembrano avere avuto nella sua diffusione silenziosa. Non ci sembra invece, che queste analisi possano offrire dati a supporto dell’esistenza di un virus dormiente in tutto il Mondo.

La complessa ecologia dei virus

Nell’intervista per il Telegraph Jefferson non spiega più in dettaglio cosa intende per «condizioni favorevoli» nell’ambiente. Questo limite dà alla sua ipotesi una certa elasticità di interpretazione. Finora la Comunità scientifica sembra in buona parte concorde nello spiegare la scomparsa di certi virus, come il SARS-CoV (Sars), o quello dell’influenza Spagnola, perché di origine zoonotica, quindi potrebbero tornare a «nascondersi» in altri animali (cfr. David Quammen, Spillover, Adelphi, 2014). 

Stando alle più recenti analisi sulla filogenesi di SARS-CoV2, sappiamo che i primi indizi dell’esistenza della famiglia dei Coronavirus risalgono al 1912, ma cominciano a essere studiati a partire dagli anni ’60. Mentre il percorso che porta dai suoi ospiti serbatoio (una specie di pipistrelli) ai più probabili ospiti emettitori (il pangolino) – prima di fare lo spillover nell’uomo – potrebbe essere cominciato tra i 40 e i 70 anni fa. 

I problemi nel ricostruire la diffusione del SARS-CoV2

Questi lassi di tempo piuttosto lunghi, uniti ad altri riscontri che portano recentemente a suggerire l’esistenza di due tipi di SARS-CoV2, evolutisi da un antenato comune, spiegherebbero perché solo una parte dei positivi sviluppa sintomi, mentre tanti altri restano asintomatici. Un tipo si è diffuso parallelamente al di fuori del mercato di Wuhan? Gli studi non sono ancora sufficienti per rispondere a questa domanda. 

Altri team di ricerca si sono addentrati nel nostro genoma, trovando alcuni riscontri in diversi geni della potenziale predisposizione di alcuni individui a sviluppare sintomi gravi della Covid-19, come illustra Enrico Bucci con numerose fonti su Facebook. Svante Pääbo e Hugo Zeberg, in un recente preprint, suggeriscono che un frammento del nostro DNA contenente alcune delle varianti geniche citate, corrisponderebbe a quello di un gruppo di Neanderthal vissuto nell’attuale Croazia circa 60mila anni fa. 

Anche se lo abbiamo scoperto di recente, sembrano non esserci molti dubbi ormai, sul fatto che ci siano stati nella Preistoria degli incroci tra Homo sapiens e Neanderthal. Mentre sulle ricerche volte a comprendere le dinamiche tra SARS-CoV2 e il nostro Organismo, non possiamo avere molte certezze, sia perché molti studi sono ancora in attesa di revisione, sia perché richiederanno comunque ulteriori studi. 

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Il caso delle Falkland è un mistero?

Che dire allora del caso registrato nelle Isole Falkland nel febbraio 2020? Tenendo conto del lasso di tempo a disposizione del virus per effettuare lo spillover; considerata la possibilità che delle polmoniti comuni non potessero essere distinte da quelle provocate dal nuovo Coronavirus, visto che il suo genoma non era ancora noto; il fatto che risulti un caso nelle Falkland non dovrebbe stupirci più di tanto.

Parliamo di un territorio con una densità di popolazione e collegamenti decisamente più piccoli (ma non impossibili), rispetto alla cosmopolita Wuhan. Del resto, non ci risulta al momento che siano scoppiati più focolai nel Mondo paragonabili a quello di Wuhan in tempi ravvicinati. 

Ma Jefferson sembra chiedersi come fosse possibile un caso di contagio in una terra notoriamente isolata. Ma il paziente zero non era un comune cittadino residente laggiù, bensì un militare dell’Aeronautica britannica, in servizio nella base militare di Mount Pleasant. Già allora si parlava di altri 25 casi sospetti e si chiedevano al Ministro della difesa maggiori accorgimenti, visto il rischio – ritenuto evidentemente plausibile – che SARS-CoV2 potesse arrivare anche lì, attraverso i collegamenti coi vari Paesi del Commonwealth. 

Il caso dell’influenza Spagnola nelle Isole Samoa

Tutt’oggi è difficile capire da dove abbia avuto origine il virus dell’influenza Spagnola. Chiamiamo così questa pandemia, perché la Spagna fu l’unico Paese in cui – in un Mondo ancora dilaniato dalla Grande Guerra – non poteva passare inosservata. 

Va bene, ma come ha fatto la pandemia ad arrivare persino nelle Isole Samoa? Similmente al caso delle Falkland, il fatto che un territorio sia sperduto rispetto a noi – in questo caso addirittura in mezzo all’Oceano Pacifico – non significa che sia del tutto isolato. Le fonti storiche testimoniano l’arrivo nella capitale delle Samoa, Apia, della nave passeggeri SS Talune, proveniente dalla Nuova Zelanda, nel novembre del 1918.

A bordo vi erano passeggeri affetti dalla Spagnola. La carenza di misure di contenimento adeguate fecero il resto. In tutto morirono oltre ottomila persone (circa il 22% della popolazione), questo è quanto riporta il portale governativo dedicato alla Storia della Nuova Zelanda. Riviste di settore trattano i problemi sanitari legati alla presenza militare neozelandese nelle Samoa occidentali dal 1914 al 1918. Dopo la presenza dei tedeschi all’inizio del Primo conflitto mondiale, giunsero i neozelandesi con circa 1500 uomini. Esistettero diverse navi denominate Talune, quella che interessa a noi venne costruita nel 1890, e affondata nel 1926. In molti nelle Samoa la ricordano come «the ship of deth», per ragioni che vi saranno ormai ovvie.

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Foto di copertina: mattthewafflecat | nuovo Coronavirus.

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