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Sanremo 1990, quando Mia Martini dipinse «La nevicata del ’56»

06 Febbraio 2020 - 20:34 Alessandro Parodi
In quel Festival di trent'anni fa la cantante, scomparsa a soltanto quarantotto anni, portò sul palco dell'Ariston il malinconico affresco scritto da Franco Califano di una Capitale, e di un'epoca, che non esistevano più

Era il Festival del 1990, quello che avrebbero vinto i Pooh con Uomini soli, quella che fa: «Dio delle città e dell’immensità, se è vero che ci sei e hai viaggiato più di noi». Sul palco dell’Ariston, però, a strappare la standing ovation e una commozione che aveva del presentimento, come un anno prima, era stata Mia Martini. Dopo la struggente Almeno tu nell’universo del 1989, che l’aveva fatta ri-scoprire dal pubblico nel suo ritorno sulla grande scena (dopo l’idiota ostracismo superstizioso che la voleva porta-sfortuna), la cantante si esibiva nella nostalgica La nevicata del 56, scritta e cucitale addosso dall’amico Franco Califano, che già nel 1972 le aveva regalato l’immortale Minuetto.

In questa settantesima edizione della rassegna canora sanremese, nel corso della serata cover di giovedì 6 febbraio, Giordana Angi e i Solis String Quartet la riproporranno. Uno degli innumerevoli omaggi postumi del Festival alla cantante, a cui è dedicato il premio della critica, che Martini si aggiudicò oltre che nel 1989 e nel 1990, nel 1982 con E non finisce mica il cielo, scritta da Ivano Fossati. Omaggi che suonano come un risarcimento per l’artista morta nel 1995 a soli quarantotto anni, dopo essere stata a lungo messa da parte dal mondo dello spettacolo prima del suo ritorno all’Ariston, voluto da Pippo Baudo.

La nevicata del 56 è una canzone che ruota attorno a poche immagini del passato: il ricordo di un mondo che non c’è più, sepolto dagli anni come Roma da quell’insolita coltre bianca di un inverno freddo di metà anni Cinquanta. Califano, il poeta che anni dopo rotolò «in salita» per sentirsi «magico», mette in bocca a Mia Martini quel «Com’è» ripetuto tre volte che è una sorta di preghiera, per non dimenticare quello che eravamo, per tenersi stretti la «bambina» che sognava «un vestito da sera», in quella Capitale dove forse «c’era posto anche per le favole».

Ma le parole del Califfo sono solo una parte della magia del pezzo che ha commosso l’Ariston e milioni di persone davanti ai teleschermi. Insieme e tutt’attorno, Mia, con quelle mani che ruotano come a scacciare via i demoni, un po’ Frida Kahlo un po’ Janis Joplin, con quella voce dura e insieme dolce che sembra concepita dal Creatore proprio per descrivere la malinconia, per dipingerla con le corde vocali.

Quello del 1990 fu anche il Festival del «trottolino amoroso», il passaggio della canzone Vattene amore interpretata da Mietta e Amedeo Minghi che diventerà un tormentone e in qualche modo anche un po’ il simbolo di quei Sanremo anni 90, oggi come allora guardati con snobismo dall’intellighenzia nostrana. Insieme alle smancerie da “canzone sanremese” però, quel Festival di trent’anni fa ci lascia anche in eredità quel La nevicata del 56 che ad ascoltarla oggi non puoi che pensare che «c’era pure la luna molto meglio di adesso, molto più di così».

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